Versatili e pratici, comodi e trendy, inconfondibili e adatti -nelle loro quasi infinite varianti- a tutte le età. I dati lo confermano: i jeans sono indubbiamente fra i capi più indossati di tutti i tempi. Secondo un’indagine interna a Visual Meta, ben il 95% degli intervistati li indossa almeno una volta a settimana, il 21% li lava più del necessario e il 79% li acquista esclusivamente nuovi.
Ma perché preoccuparsi delle abitudini di acquisto dei jeans? In che modo queste scelte travalicano i confini del puro interesse statistico per diventare, addirittura, una questione etica? Ebbene, come dimostra nel dettaglio questa infografica di Shopalike, l’acquisto di denim che le tendenze del momento e il basso costo rendono fast fashion comporta conseguenze pesantissime per l’ambiente e la salute. Fare uno sforzo per interrompere questo circolo vizioso è necessario, possibile e quanto mai urgente.
Industria dei jeans fast fashion: quanto pesa sull’ambiente?
Fabbricare jeans è tra le attività produttive che maggiormente danneggiano l’ambiente. Con un inquinamento duplice, che interessa tanto l’aspetto agricolo della produzione quanto quello industriale della lavorazione del pantalone.
Innanzitutto l’industria del cotone è una delle più consistenti al mondo, con circa 23 mila tonnellate metriche prodotte ogni anno. Il cotone è, poi, un raccolto complesso che richiede molta acqua: di per sé un problema su un Pianeta che sempre di più soffre per aridità e scarsità di risorse idriche. Come se non bastasse, per tenere il passo con la domanda e rendere il raccolto più resistente, i produttori ricorrono a pesticidi e prodotti chimici, che vanno a inquinare ulteriormente il suolo e le falde acquifere.
E purtroppo, il problema non si esaurisce sui campi. Per trasformare il cotone grezzo nei jeans che troviamo nelle vetrine dei negozi, si devono eseguire molti passaggi. Primo step: il filo deve essere colorato con un colorante indaco (il classico colore blu), che richiede usi massivi di acqua e prodotti chimici. Inoltre, se un’azienda desidera un look specifico o una finitura particolare sui jeans, le ripercussioni si moltiplicano. Il procedimento più rischioso è lo sbiancamento che, oltre a utilizzare molta acqua, necessita di sostanze chimiche estremamente dannose per i lavoratori che vi entrano in contatto.
Consumatori responsabili, come pretendere un cambio di rotta
Come invertire, dunque, questo trend negativo? Come innescare un deciso cambio di rotta ed entrare a far parte della rivoluzione della moda sostenibile?
Dall’impiego di metodi di produzione più rispettosi di ecosistemi e risorse, alle tinture naturali, alle tecnologie laser: esistono aziende che si impegnano a utilizzare idee innovative per ridurre il proprio impatto sull’ambiente e sulla salute dei lavoratori.
Di certo la strada è ancora lunga e, nel processo del settore verso la sostenibilità, il consumatore riveste un ruolo di enorme responsabilità.
Da un lato, può informarsi e scegliere consapevolmente marchi locali e meno impattanti. App come Notmystyle o Rankabrand forniscono elenchi di firme trasparenti e green-oriented, che utilizzano cotone organico e materiali riciclati o riciclabili.
Dall’altro può adottare alcuni accorgimenti che contribuiscono ad allungare il ciclo di vita del prodotto e ad alleggerire il suo impatto ambientale. Lavare solo quando è necessario è, ad esempio, una norma basica che può fare molto in questa direzione; non avere fretta di gettare via i jeans usati, ma dare loro una seconda vita, è un altra regola d’oro della sostenibilità.
Si tratta di azioni fondate su una buona abitudine chiamata buonsenso. Semplici, ma in grado di donare al consumatore un potere enorme: quello di muovere gli equilibri tra domanda e offerta e pretendere, così, che le aziende di abbigliamento di tutto il mondo si impegnino a fare meglio, ogni giorno di più.