Funghi che mangiano la plastica, la nuova sfida del biorisanamento ambientale

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Funghi che mangiano la plastica, la nuova sfida del biorisanamento ambientale ultima modifica: 2018-10-29T08:00:07+01:00 da Davide Mazzocco
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All’Università degli Studi di Torino si studia una strategia biologica per aggredire l’inquinamento da plastica

Nell’ultimo anno la presa di coscienza sull’abuso di consumo della plastica e sui problemi connessi alla sua dispersione nell’ambiente ha avuto un notevole impulso sia nel nostro paese che su scala globale.

Due sono le strategie per combattere la piaga dell’abbandono dei rifiuti plastici nell’ambiente: la prima è di tipo culturale e riguarda la diffusione di una conoscenza delle problematiche ambientali e sanitarie legate al malcostume di gettare i rifiuti in mare, in spiaggia, nelle strade e nelle zone rurali e montane; la seconda attiene al recupero e a uno smaltimento che possa immettere il rifiuto in un sistema circolare.

Ma, in una visione di lungo termine, c’è un altro fronte che potrà aprirsi nella guerra all’invasione della plastica: quello del biorisanamento ambientale.

Qualche mese fa vi abbiamo parlato del progetto Life Biorest che ha come obiettivo il disinquinamento di terreni contaminati grazie a biopile allestite con batteri e funghi.

Contemporaneamente a questa innovativa tecnica di biorisanamento ambientale, uno dei partner del progetto – l’Università degli Studi di Torino, appunto – sta lavorando per “dare in pasto” ai funghi anche la plastica.

L’inquinamento da plastica è un problema globale

Le plastiche sono polimeri sintetici diventati ormai indispensabili per la nostra vita quotidiana e in molti settori industriali, tanto da essere un’industria in costante crescita che al giorno d’oggi ha superato le 300 milioni di tonnellate prodotte annualmente.

Quando la plastica non viene correttamente smaltita si assiste a un suo indiscriminato rilascio nell’ambiente. Solo nel mare, il primo ecosistema studiato a questo scopo e quello meglio indagato, si stima un rilascio di plastica tra 4,8 e 12,5 milioni di tonnellate ogni anno, senza contare quella rilasciata nel suolo o nelle acque dolci, di cui si sa ancora poco.

I danni causati agli ecosistemi, sia diretti che indiretti, sono ingenti e rappresentano una minaccia per la fauna e per il genere umano.

L’80% delle plastiche prodotte sono termoplastiche, che hanno la caratteristica di poter essere fuse e rimodellate ripetutamente. Esempi di questo tipo sono il polivinilcloruro (PVC), il polipropilene (PP) e il polietilene (PE).

Quest’ultimo, in particolare, ne è il principale rappresentante, nonché una delle plastiche più prodotte in assoluto, grazie alla sua elevata resistenza e basso costo. Purtroppo il polietilene rappresenta anche una grande percentuale dei rifiuti, sia domestici sia industriali e la sua struttura chimica lo rende estremamente stabile nell’ambiente, dove persiste per lungo tempo, poiché è molto poco suscettibile alle degradazioni, sia biotiche che abiotiche.

Per superare questi problemi, dagli anni ’80 si è cominciato a considerare la possibilità di produrre plastiche biodegradabili, polimeri derivati da fonti naturali o fossili, che hanno le stesse proprietà meccaniche delle plastiche tradizionali, ma che sono in grado di andare incontro ad una completa biodegradazione in un limitato periodo di tempo.

Tuttavia non sempre ciò si verifica, in quanto, affinché avvenga la loro completa mineralizzazione, è necessario che siano smaltite correttamente in apposite infrastrutture. In caso contrario le plastiche vanno incontro allo stesso destino subito dalle plastiche tradizionali, persistendo nell’ambiente e provocando danni agli ecosistemi.

biorisanamento ambientale

Funghi al “lavoro” per degradare le plastiche

Recentemente, l’attenzione rivolta alle problematiche ambientali causate dalle plastiche nell’ambiente, ha portato sempre più ricercatori a focalizzare i propri studi su microorganismi in grado di degradare le plastiche. Molti studi riguardano i batteri, mentre ancora poco studiati sono i funghi che, tuttavia, grazie alla loro modalità di crescita (habitus ifale) e al loro pattern enzimatico, sembrano particolarmente promettenti.

L’Università di Torino (la Mycotheca Universitatis Taurinensis del Dipartimento di Scienze della vita e Biologia dei Sistemi in collaborazione con il Dipartimento di Chimica) ha isolato e identificato 135 funghi diversi tipi di plastiche presenti in discarica. Questi funghi sono stati coltivati in presenza di polietilene (rappresentante delle plastiche tradizionali) e policaprolattone (rappresentante delle plastiche biodegradabili) come unica fonte di carbonio.

“I migliori funghi sono stati saggiati per le loro capacità degradative nei confronti di polvere e film di PE. La conferma di avvenuta degradazione è stata osservata mediante un test respirometrico semi-quantitativo e con analisi qualitative attraverso osservazioni con il microscopio elettronico SEM e spettroscopia ATR-FT-IR. Ben il 97% dei funghi è stato in grado di crescere in modo vigoroso utilizzando il polietilene come fonte di nutrimento. 

L’importanza di questi risultati è ancora maggiore se si considera che il PE utilizzato in questo lavoro non presentava additivi, che potevano essere utilizzati dai funghi come fonte alternativa di nutrimento, né era stato precedentemente sottoposto a ossidazioni per facilitarne la biodegradazione, come spesso si osserva in letteratura” spiega Giovanna Cristina Varese, professoressa del Dipartimento di Scienze della Vita e della Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino.

purpureocillium liacinum
Conidioforo, fialidi e conidi di Purpureocillium lilacinum al microscopio ottico

“Da questo screening sono stati selezionati 13 funghi per i successivi test. Le prove respirometriche hanno permesso di selezionare alcuni funghi che hanno mostrato la capacità di mineralizzare velocemente questa plastica dimostrando di aver sviluppato specifiche vie cataboliche in grado di degradare questo polimero, altrimenti molto recalcitrante. Questi ceppi sono stati incubati per 30 giorni su film di polietilene, mostrando di essere in grado di colonizzarli abbondantemente. Le analisi al SEM hanno mostrato significativi cambiamenti della topografia superficiale del polietilene. 

Già a basso ingrandimento erano riscontrabili differenti tipologie di danni rispetto al controllo, in cui la superficie risulta liscia ed omogenea. Salendo di ingrandimento e arrivando fino ad un 3000X, i danni risultano ancora più importanti, permettendo anche di notare una differenza nel meccanismo di degradazione tra funghi diversi. Le analisi alla FT-IR hanno confermato i cambiamenti fisici osservati con il SEM evidenziando la comparsa di gruppi funzionali associati all’ossidazione del PE, come i gruppi estere, ben individuati da picchi assolutamente assenti nello spettro del controllo. Inoltre, le analisi chimiche hanno permesso di evidenziare importanti alterazioni chimiche del polimerocontinua Varese.

Strutture vegetative e riproduttive di Purpureocillium lilacinum che crescono sul polietilene osservate al SEM
Strutture vegetative e riproduttive di Purpureocillium lilacinum che crescono sul polietilene osservate al SEM

Funghi “mangiaplastica”: che cosa si potrà fare in futuro

In conclusione, questo studio rappresenta uno degli screening più ampi mai condotti sulla degradazione del polietilene da parte di funghi. Anche grazie all’isolamento da una matrice come le plastiche di discarica, i funghi saggiati in questo lavoro hanno mostrato delle spiccate capacità degradative nei confronti del polietilene dimostrate in modo inequivocabile.

“Tra tutti i funghi che abbiamo analizzato, sicuramente due hanno primeggiato rispetto a tutti gli altri, Fusarium oxysporum e Purpureocillium lilacinum, che hanno mostrato i risultati migliori in tutti i test effettuati.

Questi risultati sono, perciò, molto importanti da un punto di vista scientifico, per la conferma della degradazione del PE in un periodo molto breve, ma rappresentano anche un formidabile strumento per il futuro, in quanto lo studio approfondito dei loro meccanismi di attacco nei confronti di questo polimero così recalcitrante permetterà di mettere a punto dei nuovi sistemi per favorire la biodegradazione di questo polimero attraverso l’uso di enzimi specifici e la messa a punto di consorzi microbici in grado di facilitare la degradazione sia delle plastiche tradizionali, sia di quelle biodegradabili conclude la professoressa Varese.

Un lavoro di “manutenzione” dell’ambiente davvero ammirevole quello che si sta portando avanti nei laboratori dell’Università degli Studi di Torino. Noi di eHabitat vi terremo aggiornati sugli ulteriori sviluppi del progetto.

Foto | Pixabay e Università degli Studi di Torino

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Giornalista e saggista, ha scritto di ecologia, ambiente e mobilità sostenibile per numerose testate fra cui Gazzetta, La Stampa Tuttogreen, Ecoblog, La Nuova Ecologia, Terra, Narcomafie, Slow News, Slow Food, Ciclismo, Alp ed ExtraTorino. Ha pubblicato numerosi saggi fra cui “Giornalismo online”, “Propaganda Pop”, "Cronofagia" e "Geomanzia".

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