Già lo si preannunciava dalla locandina scelta e presentata su internet qualche mese fa. Già poco prima che la 35ma Edizione del Torino Film Festival avesse luogo, sapevamo che sarebbe stata un’edizione “gattara”. La locandina è la foto iconica del film Una strega in paradiso (Bell, Book and Candle, Richard Quine, 1958).
Kim Novak lancia al fotografo uno sguardo seducente e ammaliante. Uno sguardo in quanto tale, in quanto il viso è tagliato immediatamente dal muso di un siamese, Cagliostro. Anch’esso dagli occhi azzurri penetranti, anch’essi che guardano in macchina. Ma, più che seducente è sornione. In esso viene racchiuso quello che è il gatto nella vita e quello che rappresenta all’interno della settima arte. Il gatto e l’animalità sono stati i coprotagonisti del Festival. Dal 24 novembre al 2 dicembre ci hanno guardato. Attraverso gli schermi cinematografici prima delle proiezioni, sbirciavano dai programmi cartacei e dalle innumerevoli locandine. Sguardi a volte piccolissimi, a volte mastodontici.

Proprio sullo sguardo “felino” del cinema che si è concentrata una sezione della rassegna, dal nome evocativo e ingannevole: Non dire gatto…. Cinque film e un cortometraggio che raccontano il gatto al cinema e l’immaginario cinematografico ad altezza di gatto. Una sezione letteralmente che sbirciava sorniona fra film in concorso, anteprime e le morbose inquietudini di Brian DePalma. In comune con il regista in retrospettiva c’è il desiderio di guardare, dell’occhio nascosto, uno spirito voyeur discreto ma egualmente perturbante.
Come viene visto il gatto dall’occhio del cinema? Viene visto nella sua accezione ambigua, o l’alone fantastico che lo rende amico di streghe e maghi. Si passa così dal nostrano Black Cat (1981) di Lucio Fulci, a The Shadow of the Cat (1961), fino ad arrivare a Chris Marker e allo Stregatto. Passando per la commedia Il gatto milionario (Rhubarb, Arthur Lubin, 1951) a Kim Novak, per l’appunto.

Come diceva Hitchcock per La finestra sul cortile (1956): “Non siamo tutti voyeur?” E, citando il maestro inglese, ricordiamo che il voyerismo può essere cinematograficamente visivo e uditivo. Capita persino che i personaggi stiano guardando proprio noi spettatori. Noi pubblico veniamo chiamati in causa in maniera quasi disagevole. I film qui presentati lo fanno senza fronzoli. La macchina da presa ad altezza di gatto che passa fra le gambe e arriva ovunque.
È una metafora, una rappresentazione dei nostri desideri, ma anche delle nostre invidie e paure. Genere principe a mostrare queste ultime è l’horror e il giallo. In questa sezione sono presenti entrambi: The Shadow of the Cat e Black Cat.
Nel primo la storia è semplice: una vecchia signora intende lasciare tutti i suoi averi alla sua adorata soriana. Questo significa lasciare fuori dal testamento il marito e i servitori. Così, in una notte buia e tempestosa, uccidono la donna e ne occultano il cadavere. Unico testimone è appunto la gatta che, da quel momento in poi, diviene la principale ossessione dei congiurati.
Il suo comportamento ostile nei loro confronti e il fatto che condurrebbe eventuali ricerche al corpo, li spinge a tentare continuamente di catturarla e ucciderla. A questo scopo il padrone di casa riallaccia i rapporti con il fratello e relativa famiglia, con la promessa di una fetta della torta. Per non destare sospetti invita anche la nipote della scomparsa in casa. Quest’ultima è sorpresa dal comportamento della gatta, affettuoso nei suoi confronti. Qualora con gli altri parenti c’è ostilità (ricambiata) la giovane incomincia a nutrire sospetti sulla condotta della famiglia.

Mentre con Fulci la situazione è diversa. Prende le mosse dall‘omonimo racconto di Poe, ma intraprende degli sviluppi propri. Qui il gatto nero è la cartina da tornasole delle paure e del senso di colpa, da parte di un professore sciroccato in un paese della campagna inglese. Questi ha usato il felino come arma, tramite la telecinesi, per una serie di omicidi. Arma che è uscita dal suo controllo e che ora torna a perseguitarlo, a chiedere il conto delle sue azioni.
Qui lo spirito di Poe coincide perfettamente con la visione cinematografica di Fulci. Ovvero quella di mostrare l’assassinio come dolore e sofferenza e non come gratificazione personale. Lo sguardo di Fulci è lucido, clinico e usa tutti i mezzi della sua cinematografia a esporlo quale l’uso esasperato degli zoom e dei particolari. E del sangue. Il gatto diviene un catalizzatore di tutto questo. Si muove furtivo, osserva, si moltiplica. Ma non rappresenta il male, rappresenta la colpa e l’inutilità della violenza.
Il gatto in queste storie diviene, insomma, è il nostro doppio. Il nostro sguardo è il suo e noi diveniamo lui. Diveniamo il suo modo di guardare, più intimo e distaccato. I gatti sono ironici, sono raffinati, sono affascinanti e dolcemente perturbanti. Sono la raffigurazione dei nostri desideri e della nostra voglia di metterli in pratica. Proprio per questo, riescono tutti a ingannarci e a divertirci nel farlo. Come dice il proverbio? Non dire gatto, che ce l’hai nel sacco!
