No hay lugar lejano, il documentario che racconta della comunità rarámuri vive nella Sierra Tarahumara da oltre 500 anni che rischia di essere cacciata per il potenziale turistico della zona
No Hay Lugar Lejano (Nessun posto è lontano, ndr), è il documentario della regista messicana Michelle Ibaven, selezionato per una lunga serie di festival cinematografici di portata mondiale e vincitore del premio come Miglior Documentario Internazionale a Ecozine 2014. Il festival spagnolo, membro della rete Green Film Network, a maggio riaprirà i battenti, ospitando peraltro la cerimonia di assegnazione del Green Film Network Award 2015.
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Terra, quanto significato in un’unica parola. Tante accezioni, tutte forti e fondamentali quanto, appunto, il suolo che calpestiamo: la terra è casa, è fonte di sostentamento e ricchezza, è luogo di identità e tradizioni collettive, è teatro di scontri per conquistarla e possederla. All’inizio degli anni Ottanta, la piccola comunità indigena dei rarámuri di Mogotavo chiede alle autorità il riconoscimento della proprietà sui terreni che abita da tempo immemore, le Barrancas della Sierra Tarahumara nel Messico nord-occidentale, ma se lo vede rifiutato da interlocutori incompetenti o corrotti, che addirittura negano l’esistenza stessa della popolazione.

No Hay Lugar Lejano è il racconto dell’eterna lotta ad armi impari fra tradizione e progresso: la comunità rarámuri vive sincronizzando la propria vita ai ritmi della natura, subendo d’altra parte le pressioni e le minacce degli stranieri “di razza mista” che mirano a estrometterla per adibire il territorio a scopi turistici. Poco importa se la memoria o i saperi tradizionali di intere generazioni hanno radici profonde che abitano proprio lì, che non possono essere estirpate e trasportate lontano dalle pendici di un monte che ospita corpi e anime degli avi.

Il documentario accoglie frammenti di interviste, ma per lo più la cinepresa di Michelle si sostituisce all’occhio e all’orecchio umano, offrendo al pubblico scorci di dialoghi captati e preziosi minuti di riprese paesaggistiche che, rinunciando alla colonna sonora, celebrano il silenzio e i suoni della Sierra. “L’intento era di descrivere la resistenza della comunità al confine della Barranca esprimendo il sentire delle persone attraverso la relazione con il paesaggio, avvicinandoci visivamente al modo in cui i protagonisti vivevano la loro comunità. La relazione sempre più stretta con la gente del posto ha però finito con l’influenzare la nostra proposta, superando in qualche modo i limiti creati dai problemi di comunicazione e aprendo la nostra narrazione a nuove possibilità” ci ha raccontato la regista, cui abbiamo rivolto alcune domande in merito alla genesi e agli obiettivi del film.
Ci sono argomenti e storie che premono per essere raccontati. Quali sono le ragioni principali che ti hanno portato a raccontare questa storia?
Sono cresciuta vicino alla Sierra Tarahumara. Tuttavia, nonostante condividessi spazio, storia e cultura con la comunità rarámuri, sentivo che c’era un gap collettivo che mi lasciava molte domande. Facendo ricerche sulla migrazione delle comunità rurali alla città, lo sceneggiatore e io ci siamo resi conto dell’intenzione di costruire un complesso turistico nella Meseta de Mogotavo, con vista impressionante sulle Barrancas del Cobre, abitate dalla popolazione rarámuri da più di 500 anni. Sentimmo che era il momento giusto per diventare testimoni di questo evento.
Un occhio particolare all’ambiente, in pieno stile Green Film Network: quale pensi sia il ruolo del tuo film e del cinema in generale nell’informare, far riflettere e indurre al cambiamento in questo campo?
La nostra intenzione originaria non era quella di descrivere o denunciare quel che stava cambiando nella Sierra, era il tentativo di superare la distanza culturale attraverso l’esperienza di chi si confronta con essa quotidianamente, seppur superficialmente. Certo, il cinema è senza dubbio uno strumento impagabile di riflessione. Per me, in questo caso, presuppone la possibilità di realizzare un incontro personale, una riflessione su quel che come esseri umani ci destabilizza, ci identifica oppure-può capitare- ci lascia indifferenti.

Scartata l’opzione di restare indifferenti alla vicenda, dopo aver visto il documentario risulta chiaro come l’affascinante viaggio verso la comprensione dell’essenza più profonda dei rarámuri sia inseparabile da quel senso di appartenenza al territorio che li contraddistingue, li rende deboli e, allo stesso tempo, incorruttibili e forti di una forza inattaccabile di fronte agli interessi del progresso. “Nè la nostra casa né la nostra terra sono in vendita, perché noi viviamo qui” afferma con assoluta semplicità uno dei protagonisti. Cosa dire di più? Ogni aggiunta è superflua.
