Per alcune logiche di mercato la lana ricavata dalla tosatura dei piccoli allevamenti italiani diventa spesso rifiuto. La Fondazione Slow Food per la Biodiversità sostiene queste produzioni artigianali che rischiano di scomparire come le razze allevate e gli antichi mestieri
Diverse scuole di pensiero si scontrano ogni anno su un problema che, molto probabilmente, non troverà mai soluzione. Legato agli allevamenti di pecore e al mondo della pastorizia c’è però anche un altro problema, talvolta sottovalutato, per non dire sconosciuto, alla maggioranza: la lana.
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Ebbene sì, le pecore non producono più lana, bensì vengono allevate principalmente per la carne e per il latte, mentre il mercato si rivolge alle lane più pregiate o alle fibre sintetiche più economiche. La lana diventa così un vero e proprio patrimonio sconosciuto: secondo alcune stime, se la lana italiana appena tosata fosse utilizzata nel settore tessile, invece di essere scartata, potrebbe generare un fatturato di quasi 450 milioni di euro. Ad oggi invece, la poca lana italiana venduta riesce a spuntare prezzi irrisori, non sufficienti a sostenere spese di imballaggio e trasporto. Nonostante questo, per il benessere animale, le pecore vanno comunque tosate due volte all’anno, producendo centinaia di quintali di lana non vendibile, ma da smaltire seguendo particolari procedure e per cui è necessario pagare tasse non proprio economiche.
La filiera dovrebbe dunque fermarsi a riflettere e lavorare sull’intero ciclo produttivo, facendo di questo prodotto una vera e propria risorsa del territorio che lo produce.
La lana sucida è infatti una lana più rustica rispetto a quelle importate dall’estero ed ha fibre dal micronaggio elevato, ma presenta importanti punti di forza come proprietà di isolante termoacustico, igroscopia, traspiranza e molto altro.
In realtà qualcuno ha già iniziato a reagire.
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Da tempo ormai la Fondazione Slow Food per la Biodiversità sostiene le piccole produzioni tradizionali che rischiano di scomparire, valorizzando territori, recuperando antichi mestieri e tecniche di lavorazione, salvando dall’estinzione razze autoctone e varietà di prodotti. Si distinguono a questo proposito i Presìdi Slow Food della Pecora Villnösser Brillenschaf o della Pecora sambucana, dove tutti i prodotti degli allevamenti vengono lavorati in maniera tradizionale e sostenibile e rivenduti.
Sicuramente, una delle zone più virtuose resta Biella: nel tempo si è sedimentato il sapere artigianale di generazioni di maestri tessitori che, sfruttando l’acqua incredibilmente “leggera” dei torrenti Cervo, Strona, Sessera, Elvo, consente di ottenere filati soffici e setosi di grande eccellenza. Il consorzio l’Escaroun della Valle Stura, i pastori del Gran Sasso ed i Presìdi Slow Food, sotto la guida del Consorzio Biella The Wool Company, puntano sulla valorizzazione delle lane autoctone italiane e offrono la possibilità a enti, parchi naturali, piccoli consorzi di allevatori o singoli produttori di lavare anche quantità piccole di lana, pettinarla, filarla e lavorarla, grazie all’abilità degli artigiani locali, in filati e tessuti di qualità.
Proprio per focalizzare l’attenzione sui problemi e sulle potenzialità della lana, il Consorzio, in collaborazione con Laines d’Europe, organizza dal 6 aprile al 29 giugno presso il Lanificio F.lli Botto di Miagliano (BI), la seconda edizione italiana di Wools of Europe, una mostra itinerante con l’intento di illustrare la biodiversità delle razze ovine, ma anche di definire i molti usi a cui il vello di ciascuna razza può essere destinato.
[Foto di Eleonora Anello]