Homo Botanicus: al 36° Torino Film Festival vince l’amore per la botanica

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Homo Botanicus: al 36° Torino Film Festival vince l’amore per la botanica ultima modifica: 2018-12-09T08:01:26+01:00 da Emanuel Trotto
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I nomi che possiamo dare a un qualcosa che si fa possono essere molteplici. Può essere un passatempo, un hobby, un interesse, un amore, una passione. Ma se si arrivasse direttamente alla vera e propria venerazione? A questo ultimo livello si va semplicemente oltre. Quel qualcosa, quella attività non è solo una mera fonte di intima soddisfazione. Diventa in automatico una ragione di vita, arriva ad essere qualcosa di molto vicino ad un culto ancestrale. Con i luoghi preposti e i vari pellegrinaggi dove gli iniziati possono celebrare il proprio culto. In maniera autoreferenziale posso fare questo discorso per quanto riguarda il cinema. Il cinema è una sorta di fede e l’andare nella sala buia per assistere alle “visioni” della “Divinità Cinema” è paragonabile ad un culto. Sì lo ammetto, questa è una dichiarazione bella e buona, che si collega molto bene con il film di cui sto scrivendo.

Perché in possesso di una forma cultuale paragonabile a quella del cinefilo più incallito. Perché rivolta alla botanica, un personaggio come Julio Betancourt non può che meritarsi tutta la stima e ammirazione dovuta. Nel suo campo egli è un’autorità. Professore dell’Università di Bogotà in Colombia, ha realizzato oltre 9000 catalogazioni di piante. In particolare il suo interesse maggiore è nelle bromeliee, eliconie e orchidee. Si tratta di un uomo che mette nel suo lavoro quella venerazione di cui sopra. Per lui il Culto si celebra nel cuore delle foreste, annusando, raccogliendo, fotografando, catalogando meticolosamente. Penetrando con gli occhi nel verde in cerca dei petali colorati. Ogni nuovo esemplare o variante avvolto nella carta velina e poi in quella di giornale. Perché per lui, la scoperta di una nuova variante in un posto inaspettato è come incontrare un amico in maniera del tutto casuale e dove non ci si aspetterebbe.

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Proprio per queste ragioni il giovane dottorando Cristian Castro decide che Julio sarà il suo tutor e lui stesso il suo fedele allievo e portatore avanti dello studio. Decide insomma di prendere un testimone di una certa importanza. Da questo incipit che parte Homo botanicus di Guillermo Quintero, presentato al 36 Torino Film Festival nella sezione Internazionale.doc. Il film ha vinto il premio come Miglior Documentario. Il film è stato presentato, inoltre, al Tribeca Film Institute, nello specifico nell’ambito del Latino America Found. Questa iniziativa supporta autori e sceneggiatori originari dell’America Latina e dei Caraibi. Essi, con i loro copioni e i loro documentari, riflettono sulle loro differenti culture.

Nello specifico, il documentario di Quintero riflette su di un canovaccio che, possiamo definire classico. Ovvero il rapporto fra maestro e allievo, ma aggiungendovi un qualcosa in più. Un qualcosa che ha dell’autobiografico. Infatti Quintero ha abbandonato gli studi di botanica 15 anni fa (nel film ammette di essere «un botanico a metà»). A cinque esami dalla laurea ha capito che la scienza non sarebbe stata la sua strada. Come sua stessa ammissione «ho abiurato, come quelli che lasciano una religione». Poi, studiando filosofia a Parigi, è iniziata una fase inversa. Un desiderio di ritornare alla scienza, ritornare alla foresta e quindi alla botanica. A vedere questa branca della biologia come una forma di comprensione della Natura. La scienza più esatta per arrivarci insomma. Quindi è tornato sul luogo del delitto. In questo è stato aiutato dal fatto che ha avuto fra i suoi ex insegnanti proprio Betancourt.

Nel realizzare il film, quindi, non si limita solo a seguire Betancourt e Castro nella foresta Amazzonica in cerca di nuovi esemplari, ma si immedesima completamente con Cristiano. O meglio, Quintero e Castro divengono uno la proiezione dell’altro. Il regista tramite la macchina filmica che amplifica la visione. Esprime lo sguardo diretto del Maestro e quello indagatore dell’Apprendista.  Essa può mostrare, in immagini di repertorio, la crescita velocizzata delle piante. Oppure creare un erbolario immaginario e filmico sfogliando con la macchina da presa i volumi della Enciclopedia Britannica e gli archivi personali di Betancourt. Di fare una storia della botanica favoleggiando di botanici esploratori impavidi. Come Juan Celestino Mutis (1732- 1808) che apre il film.

Una foresta mostrata sia dal suo interno, fitto e quasi impenetrabile, sia al suo esterno. Con la massa uniforme degli alberi immersi nella nebbia e nelle nuvole. In cui le une sono la continuazione degli altri. In più punti. Una foresta che resta in campo anche quando i due scienziati sono usciti dall’inquadratura. Come se, in un certo senso Quintero stesse traendo un respiro profondo in cerca della pace e della contemplazione, e della gioia di essere di nuovo tornato ad immergersi in questo groviglio verde. In cui il tempo si ferma. «Finalmente sono qui, di nuovo» recita la sua voce, dapprincipio, come un flusso di coscienza, come non le stesse rivolgendo a Noi pubblico, ma più a se stesso.

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Può metaforizzare la ricerca febbrile dei nuovi campioni tramite fuori fuochi, dissolvenze incrociate, con la musica nervosa degli archi. Tramite insomma la colonna sonora, realizzata in maniera anti-naturalistica fondendo i suoni della foresta – fruscio dei rami, versi di uccelli e scimmie – con la musica concreta di Violeta Cruz. Una branca della musica contemporanea che utilizza suoni reali e rielaborati. Fusi con le immagini documentarie permettono allo spettatore di immergersi appieno nella giungla. Una immersione presente fin dai titoli di testa.

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Una immersione per immagini dove i due botanici a volte sono vicinissimi, centrali nell’inquadratura. Quasi che la macchina da presa non ci sia, quasi in posa. A volte sono immersi nel verde, nel groviglio, e appaiono come puntini che pian piano si avvicinano. Che si muovono con cautela con il naso all’insù, tagliando i rami per passare con una imbarazzata discrezione. Infatti raccolgono senza compromettere in alcun modo l’ecosistema. Se questo comporta anche l’essere morsi da centinaia di formiche infastidite.

Da una parte il cinema che amplifica l’immagine della Natura e delle piante. Dall’altra indaga sulla figura di Betancourt attraverso la figura di Cristian. Guardando Cristian, Guillermo ammette una certa nostalgia. Una nostalgia per quello che sarebbe potuto essere lui se non avesse abbandonato la scienza. Ma che, allo stesso tempo ammira per una dedizione, pari a quella del Maestro. A suo modo eccentrico, a suo modo un vero Maestro di Vita. Ma, soprattutto un uomo che ama la Natura e quello che fa. Con una punta di amarezza perché, pensa, chissà quante piante sono scomparse prima di essere scoperte, quante ancora da scoprire. E quante scompariranno ancora mentre vengono cercate. Questo desiderio di conoscere, di studiare in divenire la biodiversità che fu che muove Julio. Questo lo spinge a continuare a classificare questo giardino infinito che è la foresta.

E Cristian, con la medesima dedizione persegue, solitario e impavido, le orme di Betancourt. E, indirettamente, anche Quintero. Perché, «quando cerchi la tua strada è la strada che trova te».

Homo Botanicus: al 36° Torino Film Festival vince l’amore per la botanica ultima modifica: 2018-12-09T08:01:26+01:00 da Emanuel Trotto

Nato a Biella nel 1989, si è laureato in Storia del Cinema presso il DAMS di Torino nel 2012, ha partecipato alla rassegna stampa per l’Università al 29, 30, 31mo Torino Film Festival e ha collaborato per il Festival CinemAmbiente 2014. Collabora per diversi blog di cinema e free culture (Il superstite) e associazioni artistiche (Metropolis). Ha diretto due cortometraggi: E Dio creò le mutande (2011), All’ombra delle foglie (2012).

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