Cambiamenti climatici e guerre, il binomio per capire il XXI secolo

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Cambiamenti climatici e guerre, il binomio per capire il XXI secolo ultima modifica: 2018-04-04T08:00:04+02:00 da Davide Mazzocco
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Nel mondo accademico sempre più studi mettono in luce la relazione fra riscaldamento globale e conflitti. Ma non tutti sono d’accordo

Nell’ultimo lustro gli studi accademici che mettono in relazione cambiamenti climatici e guerre sono aumentati in maniera esponenziale. Studi interdisciplinari di economia, scienza politica, climatologia e storia antica e moderna hanno individuato rapporti di causalità fra cambiamenti di temperatura e/o forti precipitazioni ed eventi come la caduta di Roma o i numerosi conflitti del XVII secolo. Un gruppo di economisti delle Università di Berkeley e di Standford si sono spinti addirittura oltre sostenendo come una connessione empirica fra violenza e cambiamento climatico persisterebbe negli ultimi 12mila anni di storia.

Anche se per Donald Trump catastrofi come quella di Harvey non sono che refoli di vento, qualcuno a Washington ha già evidenziato la relazione fra riscaldamento globale e conflitti. Nel 2015 Barack Obama aveva spiegato come la siccità, i raccolti fallimentari e gli alti prezzi dei generi alimentari avessero contribuito in maniera determinante a innescare il conflitto siriano.

Harald Welzer, professore dell’Università di Flensburg, ha pubblicato lo scorso anno Climate Wars: Why People Will Be Killed in the 21st Century, un saggio che esamina le implicazioni politiche e culturali dei cambiamenti climatici. La tesi di Welzer è molto semplice: quando le condizioni necessarie alla sopravvivenza sono minacciate le popolazioni entrano in conflitto. Molto spesso si tratta di cause indirette, un vero e proprio effetto-domino come dimostra il conflitto siriano.

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L’inaridimento della Mezzaluna fertile è iniziato nella seconda metà del secolo scorso con l’indebolimento dei venti che portavano in Medio Oriente le nubi del Mediterraneo e un aumento delle temperature che ha incrementato l’evaporazione dell’umidità dei terreni.

All’apice di questo trend, in Siria, c’è stata una lunga siccità, durata dal 2006 al 2010, che, accoppiata a un forte incremento demografico (dai 4 milioni di abitanti degli anni Cinquanta ai 22 milioni del l’epoca prebellica) ha creato una situazione esplosiva dal punto di vista socio-economico.

Quando la produzione agricola è crollata, le mandrie di bestiame sono sparite e il prezzo dei cereali è raddoppiato, la popolazione si è spostata dalle campagne alle città creando i presupposti per le proteste anti-governative e per l’inizio della Guerra civile.

In un’intervista rilasciata a Vox, Welzer sposta l’attenzione su un’altra area in cui il clima ha giocato un ruolo determinante per lo scatenarsi di una guerra: “L’esempio più importante che faccio è quello del Darfur perché evidenzia cosa accade quando ci sono dei gruppi in competizione come i pastori e gli agricoltori che combattono per risorse limitate e quando le terre scompaiono e non ci sono istituzioni di mediazione per regolare il conflitto”.

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Secondo Welzer è sufficiente guardare a cosa sta accadendo in Europa: “La migrazione di massa a causa dei cambiamenti climatici porterà a perturbazioni sociali e conflitti potenzialmente violenti. Penso che questo diventerà evidente nel prossimo decennio. Lo si può già vedere in Europa. Credo che assisteremo a una crescita di fenomeni come nativismo e xenofobia e ad altri discorsi sulla costruzione di muri ai nostri confini”.

Welzer è convinto che i cambiamenti climatici saranno la principale causa delle guerre del XXI secolo, ma sottolinea come l’ideologia continuerà a costruire narrazioni politiche, identitarie, securitarie e religiose per giustificare i conflitti a livello superficiale.

I cambiamenti climatici renderanno inospitali e inabitabili territori le cui popolazioni dovranno spostarsi e adattarsi a nuovi ambienti già abitati: questo creerà delle tensioni. Non ce lo dice solo il conflitto siriano, ce lo dice la storia dei processi di globalizzazione: l’uomo si è sempre spostato per cercare un futuro migliore, molto spesso (leggi alla voce colonialismo) lo ha fatto a scapito delle risorse altrui. In molti casi i flussi migratori sono un boomerang di questa logica espansionistica figlia dell’idea che si possa crescere illimitatamente in un sistema finito.

Il nostro tempo ci mette di fronte alle conseguenze del comportamento tenuto dai paesi industrializzati negli ultimi due secoli e mezzo, come spiega il documentario The Age of Consequences di Jared P. Scott, visto lo scorso anno a CinemAmbiente. Welzer è convinto che si debba generare una discontinuità rispetto al passato: “Le moderne società liberaldemocratiche riescono a migliorare le vite e le libertà delle persone che vivono in esse. Il problema è che questi sistemi si basano sullo sfruttamento della natura e del nostro ambiente e siamo in qualche modo intrappolati in questo paradigma”.

Occorre un nuovo modello sociale, dunque, che non può che nascere sulle basi di una conoscenza diffusa, basata su narrazioni capaci di raggiungere un pubblico più vasto possibile.

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Come per i cambiamenti climatici, anche per la relazione fra riscaldamento globale e conflitti esiste un corposo fronte scetticista. Ai teorici dei rapporti di causalità fra climate change e guerre viene rimproverato un eccesso di bias di conferma ovverosia la tendenza a indagare solamente in ambiti che possono consolidare le convinzioni acquisite.

Essendoci più dati a disposizione su paesi anglofoni come India, Kenya e Nigeria o su paesi come Siria, Iraq e Sudan dove il conflitto è già scoppiato, gli studiosi hanno concentrato i loro rilevamenti in questi paesi trascurando altri paesi vulnerabili di Asia e Centro e Sud America.

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In un articolo pubblicato all’inizio dell’anno su Nature Climate Change viene sottolineato come nazioni ad alto rischio di catastrofi climatiche come Honduras, Birmania, Haiti, Nicaragua, Filippine e Bangladesh non siano presenti fra i paesi maggiormente citati nella letteratura sul tema.

Tirando le somme se ne desume che il rapporto di causalità esiste, ma non è un dato assoluto: in alcuni casi i cambiamenti climatici giocano un ruolo determinante, in altri sono uno dei fattori complementari a variabili sociali, economiche e politiche. Agli studi in atto e a quelli futuri il compito di approfondire ulteriormente quanto sia forte l’incidenza del riscaldamento globale nei conflitti che percorrono il Pianeta.

Foto Pixabay

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Giornalista e saggista, ha scritto di ecologia, ambiente e mobilità sostenibile per numerose testate fra cui Gazzetta, La Stampa Tuttogreen, Ecoblog, La Nuova Ecologia, Terra, Narcomafie, Slow News, Slow Food, Ciclismo, Alp ed ExtraTorino. Ha pubblicato numerosi saggi fra cui “Giornalismo online”, “Propaganda Pop”, "Cronofagia" e "Geomanzia".

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