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Politica Agricola Comune: i cittadini europei chiedono un’agricoltura più sostenibile

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Politica Agricola Comune: i cittadini europei chiedono un’agricoltura più sostenibile ultima modifica: 2017-05-09T08:00:06+02:00 da Giorgia Marino
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È uno dei pilastri della politica economica europea, il più importante in termini di risorse investite, ma se si escludono gli addetti ai lavori, sono in pochi a sapere davvero come funziona. La Politica Agricola Comune, o PAC, è l’insieme delle norme approvate dall’Unione Europea per indirizzare il settore dell’agricoltura verso uno sviluppo uniforme nel territorio comunitario.

Lo strumento principale per garantire questa uniformità sono i premi e i finanziamenti, erogati alle aziende e ai produttori agricoli, che corrispondono complessivamente ad oltre il 38% dell’intero bilancio dell’UE. Solo per l’Italia, si parla di 52 miliardi di euro per il settennio 2014-2020.

Ora di cambiare

Se i destinatari diretti di regole e sovvenzioni sono gli agricoltori, ciò che si decide a Bruxelles ha tuttavia inevitabili conseguenze sulla vita quotidiana di tutti. In gioco ci sono le scelte alimentari, il mantenimento della biodiversità nelle colture e negli allevamenti, la promozione di metodi di coltivazione biologici e la lotta all’uso dei pesticidi, il controllo dell’utilizzo di fitofarmaci e antibiotici, l’impatto ambientale e, non da ultimo, le emissioni di carbonio (il comparto agricolo è responsabile del 10% dei gas serra dell’UE).

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L’immagine della campagna “Cambiamo Agricoltura”

È per questo che il WWF non si è lasciato sfuggire l’occasione della consultazione pubblica sulla PAC, indetta dalla Commissione Europea e conclusasi il 2 maggio, per lanciare la campagna informativa “Cambiamo Agricoltura”. Alla campagna hanno aderito circa 600 organizzazioni ambientaliste e della società civile di tutta Europa (22 sono quelle italiane, tra cui Legambiente, Lipu, FederBio), raccogliendo oltre 250mila firme fra i cittadini dell’Unione.

Considerato che si parlava di un oggetto perlopiù sconosciuto, il risultato è molto significativo”, commenta Franco Ferroni, responsabile dell’area Agricoltura e Biodiversità per WWF Italia. “Abbiamo puntato sull’informazione, guidando i cittadini nella compilazione di un questionario online per partecipare alla consultazione. Quello che abbiamo chiesto, e che continueremo a chiedere all’Europa, è una riforma radicale della Politica Agricola Comune: così com’è, non è efficace nell’incentivare un’agricoltura più sostenibile, responsabile e sana”.

Le politiche che la cordata di ong chiede di riformare sono quelle in vigore per il settennio 2014-2020, che in settembre verrà sottoposto alla revisione di medio termine. “Si tratta di una sorta di check up con possibilità di modifiche sostanziali in vista della nuova programmazione del 2020 – spiega Ferroni -. Il percorso è lungo ed è iniziato con una consultazione pubblica, attraverso la quale l’Unione ha chiesto un parere ai singoli cittadini, alle associazioni e ai vari governi”.

È insomma l’occasione per rimediare, sostengono le ong, ad alcune storture e misure inefficienti che continuano ad avvantaggiare un’agricoltura industriale e poco propensa a metodi di coltivazione naturali ed ecosostenibili, a discapito del settore biologico e dei piccoli produttori. Correzioni auspicabili soprattutto in Italia, dove la domanda di cibo biologico è in crescita costante (si parla di un +12% annuo) e dove sono sempre di più i giovani che tornano alla terra magari cominciando proprio con piccole proprietà.

Finanziamenti, burocrazia e paradossi

“In concreto, ciò che vorremmo modificare sono i criteri attraverso cui le risorse europee vengono distribuite alle aziende agricole”, precisa Ferroni. L’erogazione dei finanziamenti segue due strade: i finanziamenti diretti (primo pilastro) e i fondi indiretti, gestiti dalle Regioni attraverso i Programmi di Sviluppo Rurale (secondo pilastro).

I pagamenti diretti – continua Ferroni – vengono erogati su base fondiaria, cioè a seconda della superficie posseduta dall’azienda. Si premiamo in questo modo le grandi aziende che possiedono molti ettari di terreno, a discapito dei piccoli produttori, già in difficoltà e che spesso sono costretti a chiudere. Il paradosso è che sono proprio i piccoli produttori a garantire la quota maggiore di produzione di cibo per il consumo umano in Europa”.

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Il secondo pilastro della PAC riguarda invece le risorse per lo sviluppo rurale: fondi che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero premiare chi adotta pratiche ecosostenibili. “A differenza dei fondi del primo pilastro, distribuiti a pioggia essenzialmente come rendita fondiaria, con il secondo pilastro si finanziano dei veri e propri interventi operativi, come l’adozione di fonti energetiche rinnovabili o di pratiche che eliminano l’uso di pesticidi. Ciò che chiediamo è allora che i fondi della PAC vengano assorbiti tutti da questo secondo pilastro, eliminando i finanziamenti secondo il criterio delle superfici”.

Il problema, però, è che spesso anche i fondi per lo sviluppo rurale finiscono per favorire chi pratica un’agricoltura intensiva (con diserbanti e tutto il corollario di metodi poco sostenibili), invece di incentivare pratiche alternative. Il paradosso ha una spiegazione nella burocrazia: “Le cosiddette misure agro-climatico-ambientali – spiega Ferroni – prevedono il pagamento per la realizzazione di singoli interventi specifici, come siepi di separazione, riduzione dell’uso di fitofarmaci, realizzazione di stagni per anfibi ecc. Le aziende biologiche, che come tali ricevono già un premio dall’UE, non possono accedere a questi altri fondi in quanto tutte le azioni specifiche finanziate fanno già parte del protocollo obbligatorio per il biologico. Chi invece sceglie di fare agricoltura integrata (coltivazione con sistemi convenzionali, che però riduce l’uso di sostanze chimiche e mitiga l’impatto ambientale ndr), riceverà un finanziamento specifico per ogni singolo intervento che attua, con il risultato paradossale che, sommando tutti i finanziamenti, riceverà più soldi delle aziende biologiche”.

Ci sarebbe poi il capitolo “greening”, o pagamento verde, cioè il pacchetto di misure aggiuntive in favore di ambiente e biodiversità, obbligatorie per ottenere i finanziamenti. “Alla prova dei fatti, solo un grande imbroglio ecologico”, commentano dal WWF. “Sostanzialmente gli interventi richiesti sono due: la diversificazione delle colture (per evitare le grandi monocolture) e la realizzazione di aree ecologiche che coprano il 5% della superficie di proprietà. Sono però state introdotte eccezioni o misure equivalenti, come le colture azotofissatrici, ovvero la soia, con il risultato che tutti scelgono queste ultime invece di lasciare il terreno a specie selvatiche”. Per farla breve, si aggira l’ostacolo.

Insomma – conclude Ferroni – tutti a parole condannano l’agricoltura industriale, l’uso di pesticidi, le colture intensive, ma nei fatti queste pratiche risultano sempre avvantaggiate. Chiediamo perciò che i soldi vengano distribuiti in modo più equo per favorire invece le pratiche dell’agroecologia e promuovere davvero un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente e della salute dei consumatori”.

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Giornalista pubblicista, si occupa di temi ambientali, cultura e innovazione. Scrive per La Stampa (in particolare per la sezione Tuttogreen) e collabora con il service giornalistico Spazi Inclusi. Ha lavorato per varie istituzioni culturali, tra cui Il Teatro Stabile di Torino e il Circolo dei Lettori. Ama viaggiare e negli ultimi anni ha trascorso lunghi periodi in Asia.

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